L’hanno paragonato a Rembrandt, Cezanne e Van Gogh. Astrattista, impressionista, espressionista, esponente del figurativismo in epoca non figurativa, le tante definizioni che lo hanno riguardato. A ciascuna di queste, il pittore foriano Giuseppe "Bolivar" Patalano (1901-1981) ha sempre opposto una semplice constatazione: io sono un muratore!
Infatti per i suoi quadri non usava mai il pennello, ma una spatola o addirittura un coltellino. I colori utilizzati erano tinte vegetali e polvere di roccia che, si dice, Bolivar tenesse appesa ad un albero, faccia al sole, anche due anni prima di utilizzarla, racchiusa in piccole bottiglie d’olio. Due mostre, a Losanna, in Svizzera - una nel 1956 ed un’altra nel 1961 - ne decretarono il successo di pubblico e di critica, dal quale egli però rifuggiva, alla ricerca di tutt’altro che la mondanità.
È bene perciò rivolgersi brevemente alla biografia di quest’artista di Forio, la cui vita sembra davvero uscita da un romanzo pieno di colpi di scena, per cercare di carpire qualche particolare in più della sua vena artistica.
Decimo di quattordici figli - il padre era quel Luigi Patalano (1869 - 1954), giornalista e scrittore di idee mazziniane e anticlericali, cui si deve, tra l’altro, la prima costruzione dell’edificio che poi diverrà La Colombaia, Giuseppe Patalano, dopo le prime due classi dell’Istituto Nautico di Procida, si imbarca giovanissimo come mozzo su diverse navi mercantili alla volta di India, Cina, Hong Kong. Sul finire della prima guerra mondiale, su consiglio di un fratello di stanza a Providence, salpa da Venezia alla volta degli Stati Uniti e qui, dopo gli anni della prima giovinezza, comincia un’altra, terribile, storia.
Pare che il giovane foriano emigrato negli Stati Uniti, per anni si sia arrangiato facendo svariati mestieri: di nuovo sulle navi, poi cameriere, rappresentante, cassiere in banca, giornalista come il padre, fino alla Grande Depressione del 1929, che inghiottì, come un enorme buco nero, cose e persone, compreso la vita del Patalano stesso. Non si è mai ben capito cosa fosse in realtà successo - c’è chi ha parlato di amnesia, chi di un coinvolgimento diretto in un omicidio - ma, sta di fatto, l’uomo venne rinchiuso nel 1934 in un ospedale psichiatrico e lì rimase, ininterrottamente, per quasi un ventennio.
Nel 1951, estradato dagli Stati Uniti, Giuseppe Patalano tornò incredibilmente a Forio, suscitando lo sgomento dei fratelli che si erano ormai abituati all’idea della sua scomparsa, probabilmente della sua morte, escludendolo dall’asse ereditario. Ne seguirono anni di dispute giudiziarie, al termine delle quali, grazie, sembra, anche, all’intercessione di un generale dei Carabinieri, Giuseppe Patalano ottenne di poter abitare una parte dell’antico palazzo paterno, al centro di Forio.
Il ritorno nella sua terra natìa, alle soglie dei cinquant’anni, è il momento della vita in cui Patalano scopre la sua dimensione d’artista. Comincia a dipingere per necessità, racimolando con i suoi ritratti l’indispensabile per vivere, salvo esser poi notato da una famosa pittrice inglese Lelò Fiaux, che lo indirizza al figurativismo che poi diverrà la sua cifra d’artista, rispetto all’astrattismo dei primi lavori. Va detto che negli anni ’50 Forio era crocevia d’artisti, poeti, letterati da ogni parte del mondo e, in quest’ambiente sui generis, "Bolivar" Patalano non ebbe difficoltà a farsi notare. Fece conoscenza, tra gli altri, con due scrittori di fama mondiale, W.H.Auden ed Alberto Moravia e, ad entrambi, chiese di posare per un ritratto, ricevendone naturalmente l’approvazione entusiasta. Ma la persona cui Patalano dedicò la maggior parte dei suoi ritratti fu Maria Maddalena, tenace donna di Panza che lo seguì negli anni della sua maturità, accudendolo amorevolmente e proteggendolo dai suoi stessi incubi.
Giuseppe Patalano è morto nella sua Forio nel 1981, lasciando in eredità una gran quantità di opere e, soprattutto, la sua autobiografia «Bolivar» scritta su incoraggiamento dell’amico poeta Auden e pubblicata in inglese nel 1977, quattro anni prima della sua scomparsa.
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